LA LIBERTA’ D’INFORMAZIONE IN ITALIA

agosto 29, 2006

di Lorenzo Ansaloni
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[questo documento è stato pubblicato su Asfalto Bagnato, il blog di Lorenzo Ansaloni (g.d.m.)]

“La vera libertà di stampa è dire alla gente ciò che la gente non vorrebbe sentirsi dire” (George Orwell)

Tempo fa mi capitò di sentire di una classifica che posizionava l’Italia attorno al quarantesimo posto in quanto a libertà d’informazione e dietro paesi quali il Mozambico. La notizia mi rimase in mente e ci rimuginai fin quando, dopo quasi due anni di vita in Inghilterra, mi è sembrato evidente che qualcosa di vero dopotutto ci dovesse essere.
Mi sono preso la briga di fare una ricerca a proposito del tema “libertà d’informazione in Italia”. È un argomento che spesso accende gli animi nel nostro paese e volevo esaminare la questione con una certa equanimità, racimolando le informazioni attraverso un mezzo (Internet) che ancora non risente in maniera apprezzabile della censura e dando una netta preferenza a documenti ufficiali di organi o istituzioni autorevoli.
Va da sè che, per non incorrere in una sorta di petitio principii, ho usato fonti internazionali (prevalentemente in inglese ma ho cercato di tradurre il piu’ fedelmente possibile i paragrafi citati). Se infatti fosse vera l’ipotesi di una compromessa libertà d’informazione in Italia, questo ci dovrebbe portare a ritenere le fonti italiane “compromesse” e, almeno parzialmente, non affidabili da cui nel dubbio la preferenza per fonti internazionali sicuramente piu’ lontane dai teatrini televisivi della politica italiana e dai chiassosi battibecchi tra gli opposti schieramenti.

Quello che emerge è un quadro che, fin dalle sue origini, non è mai stato particolarmente roseo:

“According to the information received by the Special Rapporteur, the public television network RAI has been strongly politicized since its creation in 1954. At the time, and until the major political changes of the end of the 1980s, Italian public television was controlled by the political party in power, the Christian Democrats.” [In accordo con le informazioni ricevute dallo Special Rapporteur, il network televisivo pubblico RAI è stato pesantemente politicizzato fin dalla sua creazione nel 1954. All’epoca, e fino ai principali cambiamenti alla fine degli anni ’80, la televisione pubblica italiana fu controllata dal partito politico al potere: la Democrazia Cristiana].
(Dal rapporto dell’esperto dell’ONU sulla libertà della stampa, il keniota Ambeyi Ligabo).

Mi sembra una ricostruzione storicamente fedele dei fatti. Affermare che in Italia il problema della libertà d’informazione nasce con il Governo Berlusconi sarebbe fuorviante. Tuttavia, stando ai rapporti e ai documenti ufficiali delle principali ong e istituzioni prese in esame, si delinea abbastanza chiaramente un generale peggioramento e deterioramento degli spazi di libera espressione.

Una carrellata non esaustiva ma quasi:

1- Reporters sans frontiers (http://www.rsf.org/) è un’autorevole associazione che da 18 anni si occupa di difendere la libertà di stampa e i giornalisti imprigionati, discriminati, licenziati solo per aver fatto il loro lavoro. Ogni anno pubblica un rapporto sulla libertà di stampa in vari paesi (167 in quello del 2005).
Il rapporto 2005 vede l’Italia al 42esimo posto, dietro il Costa Rica, ultima tra tra le nazioni dell’Europa Occidentale e considerata, a livello di libertà d’informazione, solo “parzialmente libera”. Il rapporto è disponibile qui.
L’Italia era 39sima nel 2004, 53sima nel 2003 e 40esima nel 2002.

2- La Commissione per i Diritti Umani delle Nazioni Unite (ONU) nella risoluzione 1993/45 del 5 marzo 1993 decise di istituire la figura del “Special Rapporteur” al fine di promuovere e proteggere il diritto alla libertà di espressione. Il 18 marzo 2005 è stato reso noto a Ginevra il rapporto sulla situazione italiana dell’esperto incaricato: il keniota Ambeyi Ligabo. Il documento è disponibile qui.
Il rapporto dipinge un quadro a tinte fosche della libertà d’informazione in Italia includendo anche un breve excursus storico dalla nascita della lotizzazione ai giorni nostri.
Distingue tre distinti problemi che caratterizzano nel loro insieme l’anomalia italiana:
a) la concentrazione dei media (duopolio preesistente al Governo Berlusconi ma di cui Berlusconi rappresenta comunque una delle due parti);
b) il conflitto d’interesse del Primo Ministro (in quanto anche proprietario delle reti Fininvest, di Mondadori di Pubblitalia, ecc.);
c) il forte controllo politico da sempre esercitato sulla televisione pubblica (RAI) dal governo in carica.
La relazione si chiude con una serie di raccomandazioni. Mi sembra di un certo interesse riportare almeno le seguenti:
“The Special Rapporteur encourages the authorities to take the necessary measures to depoliticize the media sector, in particular regarding the management of the public television and the allocation of subsidies to the print media” (73). [Lo Special Rapporteur incoraggia le autorità a prendere le necessarie misure al fine di depoliticizzare il settore dei media con particolare riguardo ai vertici della televisione pubblica e allo stanziamento dei sussidi alla carta stampata].
“The Special Rapporteur strongly recommends that the issue of conflict of interest, in particular concerning the President of the Council of Ministers, be further analysed, in consultation with all concerned actors, in order to find a sustainable solution whereby influence by the political sector in the media would be significantly reduced” (74). [Lo Special Rapporteur raccomanda fortemente che la questione del conflitto d’interessi, con particolare riferimento al Presidente del Consiglio dei Ministri, sia ulteriormente analizzata, consultando tutte le parti interessate, al fine di trovare una soluzione percorribile attraverso la quale l’influenza politica nei media possa essere significativamente ridotta].

3- L’International Press Institute (http://www.freemedia.at/) è nato intorno agli anni cinquanta e oggi è un network globale di editori, media e giornalisti che ha membri in 120 paesi nel mondo.
Gioca un ruolo consultivo per L’UN (ONU), l’UNESCO e il Consiglio Europeo ed è impegnato nella difesa della libertà d’informazione su vari fronti.
Non pubblica una vera e propria statistica o classifica ma un “World Press Freedom Review”. Quello inerente l’Italia (2004 reperibile qui, e denuncia un quadro preoccupante per una democrazia occidentale.
Valga a titolo d’esempio il solo incipit:
“Italy has a special place in Europe with regard to freedom of the media because in no European country does the prime minister, the head of the government, who is the politician that can exert the most power over the state media, own most of the other broadcasting media, and many of the print media”. [Per quanto riguarda la libertà dei media, l’Italia ha un posto speciale in Europa in quanto in nessun altro paese il Primo Ministro, capo del governo (il politico che può esercitare il maggior potere sullo stato dei media), possiede la maggior parte degli altri media televisivi e e molti dei quotidiani nazionali].

4- L’European Federation of Journalists (EFJ) (http://www.ifj-europe.org/) è l’organizzazione europea dell’International Federation of Journalists (IFJ) (http://www.ifj.org). L’ EFJ, rappresentando circa 280.000 giornalisti in 30 paesi, è la piu’ grande organizzazione giornalistica in Europa.
In base a una risoluzione addottata nel Meeting di Praga del 2003, l’EFJ si è impegnata ad investigare la situazione dei media in Italia. Il risultato di tale sforzo è il rapporto “Crisis in Italian Media: How Poor Politics and Flawed Legislation Put Journalism Under Pressure” (disponibile qui), che già dal titolo non lascia presagire una situazione rosea.
Le conclusioni sono riassunte in otto punti. Mi limito a citare il primo:
“It is impossible not to conclude that the media crisis in Italy is profound and serious. There is a deeply flawed system of management, a lack of public awareness, an element of political paralysis, and a deep sense of professional unease within Italian journalism about the future of media.” [E’ impossibile non concludere che in Italia la crisi dei media sia seria e profonda. C’è un sistema di gestione profondamente sbagliato, una carenza di consapevolezza pubblica, un elemento di paralisi politica e una seria preoccupazione tra i giornalisti italiani sul futuro dei media].

5- Freedom House (www.freedomhouse.org) è un’associazione no profit fondata piu’ di 60 anni fa da Eleanor Roosevelt, Wendell Willkie ed altri americani impegnati nella difesa della libertà di stampa.
Nel corso degli anni Freedom House è stata al centro di numerose lotte e campagne per la libertà di stampa denunciando sistematicamente le numerose violazioni in U.S.A. e nel mondo. È presente a livello mondiale con sette sedi sparse tra U.S.A. e Europa.
Ogni anno pubblica un rapporto teso a fornire un quadro a livello mondiale sull’indice di libertà di stampa e d’informazione. Nel rapporto 2004 (disponibile qui), l’Italia è al 74esimo, ultima tra le nazioni dell’Europa Occidentale, preceduta da nazioni come Ghana e Papua Nuova Guinea e considerata a livello di libertà d’informazione solo “parzialmente libera”.
Nel rapporto 2005 (che non sono riuscito a trovare on line sul sito) l’Italia è sempre considerata parzialmente libera ma al 77esimo posto.

6- “L’OCSE (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa) (http://www.osce.org/) è una organizzazione di sicurezza paneuropea i cui 55 Stati partecipanti coprono l’area geografica da Vancouver a Vladivostok. Quale accordo regionale ai sensi del Capitolo VIII della Carta delle Nazioni Unite, l’OSCE si è autodefinita strumento fondamentale nella sua regione per il preallarme, la prevenzione dei conflitti, la gestione delle crisi e la ricostruzione successiva ai conflitti in Europa” (dal sito del ministero degli esteri). gasparrr.jpg

Il 7/6/2005 l’OCSE pubblica un rapporto dal titolo: “Visit to Italy: The Gasparri Law” che passa nel quasi silenzio totale. Il documento è reperibile qui.

Non solo è un esame della legge Gasparri ma un’ottima ricostruzione storica di quella che viene chiamata “Italian anomaly”. Ripercorre gli albori della lotizzazione, passa per la legge Mammì e mette in guardia contro l’eccessiva concentrazione dei media televisivi. Sanziona l’incompatibilità d’interessi del Primo Ministro:
“In a democracy, it is incompatible to be both in command of news media and to hold a public post”. [In una democrazia è incompatibile avere sia il controllo dei telegiornali che occupare un posto pubblico].
Riconosce alcuni meriti e innovazioni nella legge Gasparri ma avverte: ”The Gasparri Law is not likely to remedy the Italian anomaly” [La legge Gasparri probabilmante non risolverà l’anomalia italiana].

7- Il Parlamento Europeo (http://www.europarl.eu.int/) ha approvato (22/04/2004) il testo del rapporto della liberale danese Johanna Boogerd Quaak dal titolo “Relazione sui rischi di violazione, nell’UE e particolarmente in Italia, della libertà di espressione e di informazione” con 237 si, 24 no e 14 astenuti. Il rapporto è reperibile qui.
Il rapporto è il linea con i precedenti documenti e rileva che “uno dei settori nel quale più evidente è il conflitto di interessi è quello della pubblicità, tanto che il gruppo Mediaset nel 2001 ha ottenuto i 2/3 delle risorse pubblicitarie televisive, pari ad un ammontare di 2500 milioni di euro, e che le principali società italiane hanno trasferito gran parte degli investimenti pubblicitari dalla carta stampata alle reti Mediaset e dalla Rai a Mediaset”. (cfr. pag 17) [da una traduzione italiana non più disponibile on line].
Non si sbilancia in un analisi storica delle ragioni dell’anomaila italiana ma costituisce un ottimo compendio sulla critica realtà mediatica italiana redatto da una fonte autorevole quale il Parlamento Europeo.

8- L’Helsinki Final Act è il risultato finale della Conference on Security and Cooperation in Europe tenutasi ad Helsinki nel 1975 tra vari paesi (U.S.A., Canada, Unione Sovietica e la quasi totalità dei paesi europei). Per monitorare la parte dell’accordo inerente i diritti umani fu creata la Helsinki Watch (associazione indipendente non governativa) che divenne la International Helsinki Federation for Human Rights (IHF) (http://www.ihf-hr.org/) in seguito ad una conferenza del 1982 tra i comitati costituenti.
Ogni anno, l’IHF pubblica un rapporto per un quadro generale sul rispetto dei diritti umani. Il rapporto 2005 inerente l’Italia è reperibile qui.

Mi limito a riportarne un breve stralcio:
”The main human rights concerns in the field of media freedoms were the high level of media concentration, governmental control over public radio and television, inadequate legislation to protect journalistic sources, and the continued criminalization of defamation through the media.” [Le principali preoccupazioni per quanto riguarda il campo della liberta’ d’informazione, sono l’alto livello di concentrazione e controllo governativo sopra radio e televisioni pubbliche, inadeguata legislazione atta a proteggere le fonti giornalistiche (NdT: ma recentemente e’ stata approvata una nuova legge) e la continuata criminalizzazione e diffamazione attraverso i media].

9- Il Consiglio d’Europa (Council of Europe) (http://www.coe.int ) è la più vecchia organizzazione politica del continente (1949): raggruppa 46 paesi, tra cui 21 Stati dell’Europa centrale e orientale (Italia compresa) ed è un’organizzazione distinta dall’Unione europea dei “25”. Il Consiglio d’Europa è stato istituito allo scopo di:
– tutelare i diritti dell’uomo e la democrazia parlamentare e garantire il primato del diritto;
– concludere accordi su scala continentale per armonizzare le pratiche sociali e giuridiche degli Stati membri;
– favorire la consapevolezza dell’identità europea, basata su valori condivisi, che trascendono le diversità culturali.
Il 3 giugno 2004 il Consiglio d’Europa pubblica un rapporto (Doc. 10195) dal titolo: “Monopolisation of the electronic media and possible abuse of power in Italy” a cui fa seguito la “Resolution 1387”. Il documento è reperibile qui, mentre le risoluzioni si possono trovare qui.

L’incipit del rapporto dà un idea dei contenuti:
“The concentration of political, commercial and media power in Italy in the hands of one person, Prime Minister Silvio Berlusconi, is recognised as an anomaly across the political spectrum.” [La concentrazione in Italia del potere politico, economico e mediatico nelle mani di una persona, il Primo Ministro Silvio Berlusconi, è riconosciuta come un anomalia in tutto lo spettro politico].
E ancora: “The Assembly deplores the fact that several consecutive Italian governments since 1994 have failed to resolve the problem of conflict of interest and that appropriate legislation has not yet been adopted by the present Parliament.” [L’Assemblea deplora il fatto che diversi governi italiani succedutisi consecutivamente dal 1994 abbiano fallito nel risolvere il problema del conflitto d’interessi e che appropriate misure legislative non siano state adottate dal presente governo].

10- L’Open Society Institute (OSI) (http://www.soros.org) nasce nel 1993 ad opera di George Soros come fondazione tesa a promuovere il rispetto dei diritti umani e riforme sociali e economiche. Fa parte della Soros foundations network che comprende piu’ di 60 paesi. L’11/10/2005 l’ EUMAP (un progetto – iniziativa dell’OSI) (http://www.eumap.org) pubbica un autorevole studio dal titolo “Television Across Europe: Regulation, Policy, and Independence”.
L’analisi complessiva e suddivisa in tre volumi, piu’ il rapporto introduttivo di 337 pagine ed è reperibile qui.
Il rapporto inerente l’italia è reperibile invece qui (in inglese). Oppure, in italiano, sono disponibili i rapporti dedicati al singolo stato qui e qui. Un’altra traduzione in italiano si può trovare anche qui.

Cito dalla traduzione italiana: “La eccezionale concentrazione che caratterizza il settore del broadcasting italiano, il pasticcio creato dalla collusione tra media e sistema politico, e l’eccessiva attenzione del governo alla gestione del servizio pubblico non sono soltanto “anomalie italiane”. Questi problemi rappresentano una minaccia potenziale alla democrazia stessa, e possono influenzare negativamente lo sviluppo delle nuove democrazie nell’Europa Centrale e Orientale.”
E ancora: “Inoltre, se, come è spesso avvenuto, Berlusconi esterna con franchezza le sue opinioni sui problemi dell’informazione e non si fa scrupoli ad influenzare le sue reti, emerge con chiarezza l’inefficacia delle norme per garantire un’informazione corretta, pluralista ed equilibrata. La Legge Gasparri, che disciplina molti aspetti dell’evoluzione del mercato televisivo, nonché avvia una timida privatizzazione della RAI, non ha migliorato lo stato di cose, essendo stata vista come un prodotto del “conflitto di interessi”,che affligge da tempo il panorama politico italiano.”
E per concludere: “In particolare la RAI è legata a doppio filo al potere politico. Il “contratto di servizio” che essa sottoscrive con il governo la obbliga ad una serie di comportamenti che sulla carta dovrebbero garantire pluralismo interno e informazione equilibrata, ma che nella pratica rispondono piuttosto alle logiche della “lottizzazione”, ossia della spartizione di reti, posti di comando, programmisti e giornalisti secondo le logiche partitiche e in sintonia con il governo in carica.”

11 – Nel settembre 2002 la Commissione Europea crea un network> di esperti in diritti umani in risposta alle raccomandazioni espresse nel rapporto del Parlamento Europeo inerente lo stato dei diritti umani in Europa (2000) (2000/2231(INI)).
Ogni anno il network di esperti redige un rapporto, quello inerente l’Italia (2004) è reperibile qui.
L’analisi condotta, prende in esame alcuni dei documenti proposti nella presente lista e conferma sostanzialmente la gravità e l’anomalia del caso italiano:
“It seems possible to agree with those taking the issue of pluralism and interconnection between the political and media power as serious, in particular after the new legislation of 2004” (Nda: la legge Gasparri) (pag. 41). [Ci sembra possibile concordare con coloro i quali ritengono che la questione del pluralismo e della commistione tra potere politico e mezzi d’informazione sia seria, in particolare dopo la nuova legislazione del 2004 (NdT: la legge Gasparri)].

Ribadisce il conflitto di interessi tuttora irrisolto che sta portando congrui ed ingiustificati benefici a Mediaset:
“the imbalance between press and television, that absorbs the 60 per cent of the overall mass media advertising spending; the substantial monopoly of privately-owned television, with Mediaset that continues to show a significant increase in income and revenues every year, thanks to the “dragging effect” of the “Berlusconi-Prime Minister” factor” (pag 41). [Lo squilibrio tra stampa e televisione, che assorbe il 60% delle spese totale per la pubblicita’ sui mass media; il sostanziale monopolio della televisione privata, con Mediaset che continua a mostrare un significativo incremento di entrate e di reddito ogni anno, grazie all’effetto trascinante del fattore “Berlusconi-Primo Ministro”].

Mette in risalto la sostanziale omologazione al potere politico dei media italiani:
“At the end of 2004 all the three Mediaset news are edited by journalists with similar political ideas” pag. 43). [Al termine del 2004 tutti e tre i telegiornali di Mediaset sono diretti da giornalisti con idee politiche simili].

Mentre: “The first two Rai news seem to have assumed the role of loudspeakers for the executive, the third for the opposition” (pag. 42). [I telegiornali delle due prime reti RAI sembrano aver assunto il ruolo di altoparlanti per l’esecutivo, quello della terza rete per l’opposizione].

E l’assenza di un’alternativa effettiva “does not allow the “removed” professionals to practice their job with another broadcaster” (pag. 42). [Non permette ai professionisti “rimossi” di praticare la loro attivita’ per un altro canale o per un’altra compagnia televisiva].

E concludendo:
“The overall performance of the present Italian broadcasting system does not appear to reflect the significant check-and-control role that is traditionally attributed to the media in an advanced democracy and the Law n. 112 of 2004 seems to move away the system from this goal, although a complete evaluation is put off until its effective application” (pag. 43). [La prestazione complessiva dell’attuale sistema televisivo italiano non sembra riflettere il significativo ruolo di “controllo e verifica” che tradizionalmente viene attribuito ai media in una democrazia avanzata e la legge n. 112 del 2004 (NdT: legge Gasparri) sembra allontanare il sistama da questo obiettivo, sebbene una valutazione completa sia da rimandarsi fino alla sua effettiva applicazione].

Pubblicato Marzo 11, 2006 03:45 PM


La persecuzione contro Paolo Persichetti

agosto 29, 2006

persichetti1permessi.jpgNon usufruirà di permessi, Paolo Persichetti. Dopo quattro anni di carcere maturato a partire dall’arresto in Francia (in relazione alle indagini sul delitto Biagi, con cui niente c’entrava), Persichetti sconta una condanna per concorso nell’omicidio Giorgianni. Francesco Cossiga più volte ha fatto appello ai magistrati e alla pubblica opinione perché il regime carcerario a cui Persichetti è costretto fosse perlomeno attenuato (l’uomo è stato sballottato da una prigione all’altra per tutta la Penisola) e perché con la sua liberazione si incominciasse un serio dibattito che preludesse alla chiusura degli strascichi di una stagione che il carcere non storicizza. Ora che ne ha il diritto, Persichetti ha fatto domanda per qualche ora di libertà. Negata: il magistrato si è preso la briga, esaminando una domanda considerata routine, di svolgere opera ermeneutica sul libro Esilio e castigo, scritto in carcere e pubblicato in Francia e in Italia.

Secondo la giudice, alla lettura del testo di Persichetti si associa la sensazione di un’avversione nei confronti dello Stato che contrasta con il sistema giuridico democratico – come se invece Toni Negri fosse amico dello Stato, e Curcio anche. Una negazione di libertà che a questo punto si fa esplicita: non è nemmeno più fondata su fatti, ma direttamente su idee. La maschera è sollevata. Persichetti non disporrà di alcun permesso per idee che sono, peraltro, la premessa maggiore alla conclusione del libro: la richiesta di un processo storico di rappacificazione, una soluzione concreta a una stagione drammatica che lo Stato italiano sembra volere tenere spalancata come una ferita da cui sangue reale e sangue mnemonico continua a fuoriuscire.
Pubblichiamo, per solidarietà a Paolo Persichetti, un suo intervento. In calce, i particolari del suo libro, prefato da Erri De Luca.

IL PASSATO RIMOSSO, IL FUTURO CHE MANCA
La vicenda della lotta armata in Italia incombe sul presente anche perché non si è mai voluto procedere a un confronto sulle ragioni che la determinarono. E gli epigoni si sono potuti giovare di questa rimozione.
di Paolo Persichetti
[da Liberazione, 15 aprile 2005]

persichetti2permessi.jpgEra una calda sera d’estate quella del 24 agosto 2002 e l’Italia aveva urgente bisogno di recuperare uno di quei giovani maledetti degli anni ribelli per offrirlo in pasto all’opinione pubblica. Una grossolana impostura, escogitata con l’intento di fornire l’immagine truccata di un brillante successo operativo dopo l’attentato mortale contro Marco Biagi, ucciso pochi mesi prima da un piccolo gruppo che aveva riesumato dal museo della storia una delle ultime sigle della lotta armata. Un paese distratto e annoiato, persino futile, conquistato dall’avidità dell’oblio, impaurito dalla possibilità di sapere, era stato scosso dal frastuono di quegli spari improvvisi. Irritato dal brusco risveglio, aveva rovistato furiosamente in un passato ormai sconosciuto. Cercava in spazi e tempi lontani responsabili di quei colpi senza radici. Attribuiva al passato quella che era una surreale imitazione figlia del presente. Cercava nelle figure di ieri dei colpevoli per l’oggi. Fu così che all’alba del giorno seguente venni scambiato nel tunnel del Monte Bianco. Metafora di un accordo sotterraneo, siglato al di fuori di ogni trasparenza, concluso nel ventre della terra, lontano dalla luce del sole, distante dal chiarore del giorno, dopo una folle corsa nella notte. Quella furtiva consegna celava una flagrante violazione della legalità internazionale: una persona non può essere estradata per dei fatti posteriori a quelli indicati nel decreto, in assenza di una nuova richiesta e previa verifica del suo fondamento. Pur di avallare il teorema della centrale francese le autorità hanno agito aggirando tutti gli obblighi previsti dalla convenzione europea sulle estradizioni. I passati rivoluzionari faticano a diventare storia, adagiati nel limbo della rimozione, periodicamente vedono schiudersi le porte dell’inferno che risucchia brandelli di vita, trascina esistenze sospese. Lasciti, residui d’epoche finite che rimangono ostaggio dell’uso politico della memoria. Non un passato che torna ma un futuro che manca. La concomitanza con l’anniversario dell’11 settembre ricordava quanto la musica nel mondo fosse cambiata. Era tempo ormai per un forte richiamo all’ordine, alla riaffermazione dell’autorità, al rispetto assoluto della legge, al ripristino della certezza della pena. In un fondo di Barbara Spinelli, intitolato “Gli assassini tornano di moda”, venivo seriamente redarguito perché i prigionieri e i rifugiati non avevano mai fatto atto di pubblico pentimento. Poche settimane più tardi, nel silenzio cimiteriale di una cella d’isolamento, una lettera anonima riprendeva l’argomento consigliandomi di collaborare con la giustizia,se volevo uscire da quella sentina della terra. Una richiesta surreale che undici anni dopo cercava ancora le prove del verdetto emesso in corte d’appello.
Alla fine di una lunga trafila burocratica, anche il magistrato di sorveglianza non ha autorizzato i permessid’uscita perché «non risulta che abbia pubblicamente assunto posizioni di dissociazione della lotta armata, tanto più necessaria alla luce della grave recrudescenza del fenomeno terroristico dichiaratamente ispirato all’ideologia delle Brigate Rosse». Una richiesta irricevibile poiché costituirebbe una resa di fronte a trattamenti differenziali e premiali che hanno incrinato il principio di eguaglianza di fronte alla legge e trasformato l’inchiesta, il processo e il carcere, da sedi di verifica e ricerca della prova o svolgimento della pena, in mercati delle indulgenze, fiere dello scambio politico, luoghi dove si riceve un po’ di futuro in cambio del proprio passato. Diceva a tale proposito di Jeremy Bentham che «la sfera della ricompensa è l’ultimo asilo dove si trincera il potere arbitrario». I diversi gruppi in cui erano divise le Brigate Rosse degli anni ’80, si sono estinti alla fine di quel decennio. Una netta discontinuità politica fu sancita dai militanti dell’epoca. Lo striminzito gruppo apparso solo più tardi, negli anni ’90, sotto la sigla Ncc, è sorto con un evidente intento polemico nei confronti dei fuoriusciti e dei prigionieri che durante gli ultimi grandi processi dell’87-89 hanno sancito la chiusura del ciclo politico della lotta armata. Ogni confusione con le epoche precedenti è dunque ingiustificata e strumentale. Non ci sono ambiguità intrattenute. Chi sostiene il contrario nel ceto politico, nel governo o tra gli apparati investigativi e giudiziari, offre solo la prova di una sorprendente osmosi culturale, una micidiale simmetria d’atteggiamento con gli autori degli attentati D’Antona e Biagi. I quali hanno tutto l’interesse a rimuovere i percorsi politici condotti dagli ex militanti della lotta armata nel decennio ’90.
La dissociazione è l’esatto contrario di una disposizione dell’animo, un afflato della coscienza, un soprassalto dello spirito che sosterrebbe nobili percorsi di distacco interiore, assolutamente liberi e disinteressati, ma un tipico modello di autocritica degli altri, che ricava vantaggio dall’esportazione delle proprie responsabilità. Paradossalmente il protrarsi della lotta armata, da cui essa pretende un cinico distacco, è il presupposto della sua forza contrattuale. Qualcosa d’assolutamente opposto al divenire politico del fenomeno stesso, al suo approdare altrove, al suo oltrepassare attraverso un tragitto assolutamente autonomo, sottratto a qualsiasi forma di connivenza o compiacenza col potere, come è avvenuto alla fine degli anni ’80
La riesumazione di questo vecchio arnese dell’emergenza, riporta strumentalmente indietro di decenni i percorsi politici realizzati. Una caricatura archeologica che si spiega con la maligna intenzione di costruire un nesso morale, in assenza di quello materiale, tra i militanti degli anni ’70-’80 e gli episodi del 1999 e del 2002. La responsabilità viene così ad assumere una singolare dimensione transitiva, utile per ricacciare indietro il timore di dover riconoscere che quei nuovi colpi d’arma da fuoco siano anche responsabilità di chi ha cullato il paese nella rimozione, di chi quell’oblio ha teorizzato e incensato, di chi in questo modo ha evitato imbarazzanti domande. Il rifiuto ostinato dell’amnistia, mantenendo gli insorti simbolicamente emarginati nei recinti carcerari o nei limbi disciplinari d’esistenze semipenitenziarie,ha congelatoil tempo, cristallizzato leepoche e tentato d’impedire a quel sapere incarcerato, aquelle esperienze sotto chiave o esiliate, di far valere le ragioni dell’irriproducibilità dei modelli di lotta armata trascorsi. Non anatemi morali ma autonome valutazioni politiche udibili dalle componenti sociali antisistema.Tutto questo è mancato. L’Italia è rimasta fedelmente ancorata alle politiche dell’urgenza, allo stato d’eccezione, ai modelli dell’abiura che hanno facilitato il reistallarsi della coazione a ripetere. L’esilio e il carcere hanno alterato la coscienza del tempo, rafforzando nella società la tentazione di considerare immutabile il rimosso. Negli anni passati, prigionieri e fuoriusciti, se non altro per quella saggezza che fuoriesce dal disagio di chi deve confrontarsi con circostanze sfavorevoli, hanno dovuto misurarsi con la sconfitta esplorandone gli aspetti più reconditi, vivendola sui propri tragitti esistenziali, tra esili senza asilo e castighi. All’anatema han no opposto la riflessione. Avrebbero potuto barricarsi nelle torri in cemento blindato delle carceri, trovare conforto nell’isolamento penitenziario che gli era destinato, arroccarsi nel dolor eper le vittime della propria parte, sentirsi l’emblema sacrificale di un martirio metastorico, vivere di una mortifera nostalgia che come scrive Milan Kundera, «non intensifica l’attività della memoria, non risveglia ricordi, basta a se stessa, alla propria emozione, assorbita com’è dalla sofferenza». Invece hanno rifiutato tutto questo. Non si sono sottratti alla realtà mutata che rendeva obsolete le loro scelte passate. Hanno cercato, nonostante i muri e le sbarre, di andare oltre. Sono evasi dalla loro pena, sono fuggiti ai carcerieri rimasti a sorvegliare solo i fantasmi di unasocietà attardata, ancora madida di rancore contro le immagini vuote d’icone da odiare.
I “vincitori”, o quel che ne è rimasto, cosa hanno fatto? Adagiati sopra e poi travolti dagli stessi dispositivi concepiti per sconfiggere gli insorti non hanno saputo condurre a termine la benché minima elaborazione collettiva del lutto. Si rimproverano dei singoli per aver eluso un discutibile senso di colpa, mentre la società italiana è stata interamente conquistata dalla rimozione. Ciò che per i prigionieri e i rifugiati, ma anche per settori della società civile, è ormai storia, materia d’indagine e inchieste serrate da discutere con le tecniche fredde delle scienze sociali, per la quasi totalità del ceto politico e della magistratura resta una ferita aperta, una piaga viva che non può e non deve cicatrizzarsi. Allo scandaglio del lavoro storico si contrappone la venerazione di una memoria trasfigurata nel culto di un dolore non riassorbibile. Al lavoro d’incorporazione del passato, doloroso e conflittuale, si sostituisce un atteggiamento di rifiuto che fa di esso una trincea su cui attestarsi. L’elaborazione del lutto diventa in questo modo, secondo una consolidata tradizione inquisitoriale, uno strumento di bonifica delle coscienze che aggiunge alla sanzione sui corpi anche la correzione delle menti. Si afferma in questo modo una narrazione penitenziale della storia contrassegnata da totem e tabù, miti fondatori e comportamenti demonizzati. La complessità sociale degli eventi si riduce ad una rozza contrapposizione tra bene e male, il decennio dei movimenti e dei conflitti diventa storia di delitti. I fatti perdono ogni loro dimensione sociale per acquistare unicamente rilevanza penale mentre la militanza si confonde con la devianza. Come in un perfetto esorcismo, gli anni ’70 diventano il capro espiatorio del Novecento italiano, il capitolo che manca al livre noir du communisme.
A conti fatti, riflettere su questo passato che non passa, cercando di non farlo restare un’ancora, un peso, una zavorra, ma di scioglierlo nel presente, si è dimostrato una inutile fatica di Sisifo. Uno sforzo vano e inviso, causa di pregiudizio e di sospetto perché non recuperabile e integrabile attraverso logiche premiali e dissociative, ma quel che è peggio,oggetto di un vero e proprio misconoscimento, fatto nullo e non avvenuto, circostanza azzerata, pagina sbiancata.

persichettiesilioecastigo.jpgPaolo Persichetti
ESILIO E CASTIGO

Scritto in prigione e pubblicato per la prima volta in Francia, questo libro è la rappresentazione fedele di un caso di ingiustizia esemplare e costituisce uno stimolo efficace per la ripresa del dibattito sugli avvenimenti di quegli anni cruciali, al di là delle sciocchezze reticenti e delle turpitudini interessate che la vulgata ufficiale continua ad accreditare. Detenuto nel carcere di Viterbo, l’autore sviluppa qui una critica rabbiosa della procedura penale, di cui è divenuto ostaggio. Attraverso l’analisi della ‘democrazia giudiziaria’ e della ‘giudiziarizzazione’ dello spazio pubblico, Paolo Persichetti presenta una riflessione incalzante su problemi non risolti della società italiana, risalenti agli anni ’70, e che avevano già allora disvelato la natura classista e persecutoria delle istituzioni e le gravi responsabilità di una certa ‘sinistra’. La requisitoria dell’autore è di un’attualità scottante, in un’epoca in cui lo stato d’eccezione tende a imporsi nello spazio giudiziario europeo e, più in generale, a livello internazionale.

«La cella addosso a Paolo Persichetti è saldata con la fiamma fredda del rancore. Prima il raggiro, la truffa di una finta accusa per poterlo estradare, e la complicità dei funzionari che si sono prestati a trafugare un corpo in libertà per consegnarlo ai carcerieri. Poi la penitenza di scontare pene per le rivolte politiche del 1900 […]. Rancori: in Italia non si perdona l’azione di chi andò allo sbaraglio senza alcun tornaconto personale. Chiamano volentieri terrorismo qualunque azione non abbia un riscontro economico. Da noi si perdona tutto, purché commesso per arricchimento […]. Incomprensibile e perciò imperdonabile è la generazione politica della quale Paolo Persichetti è stato uno degli ultimi iscritti, il più giovane dei noialtri di allora». (Erri De Luca)

Paolo Persichetti (Roma, 1962) partecipa alle grandi lotte dell’inizio degli anni ’80. Nel 1987 è arrestato per organizzazione di banda armata. È poi accusato, senza elementi, di aver partecipato all’omicidio Giorgieri. Si rifugia in Francia, dove – nonostante la richiesta di estradizione che il governo francese ‘congela’ come per tutti i fuoriusciti – insegna scienze politiche all’Università di Parigi VIII. Nel 2002 è arrestato con la falsa accusa di complicità nell’uccisione di Marco Biagi, ed è estradato in Italia dove viene incarcerato a Viterbo.

Paolo Persichetti – ESILIO E CASTIGO – Città del Sole – 15 euro


I tre fronti – Prima parte

agosto 29, 2006

di SbancorNasrallah.jpg
L’Italia sta per mandare 3.500 soldati allo sbaraglio su quello che G.W.Bush ha definito “il terzo fronte” della guerra al terrorismo. Ma qual è il terzo fronte? Oggi è la frontiera libano-israeliana. Già lungamente ed inutilmente presidiata dall’UNIFIL. Ma dalla fine di agosto, quando l’Iran risponderà negativamente alla Risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU sul nucleare, il Terzo Fronte, quello vero, sarà l’Iran e, forse anche la Siria.
Ora se valutiamo con spirito equanime l’andamento delle operazioni sugli altri due fronti, Afghanistan e Iraq, c’è di che rabbrividire.
Cito da fonte non sospetta: Alessandro Politi, in un paper intitolato Un multipolarismo difficile, presentato all’interno del Rapporto Nomisma “Nomos & Khaos” 2005:

“La guerra in Afghanistan (Operazione Enduring Freedom) rischia di essere persa. (…) Secondo le mappe pubblicate dall’ONU tra il giugno 2002 ed il febbraio 2004 la coalizione non solo non sta vincendo ma ha subito una costante erosione nel controllo delle province disputate. Se un tempo solo tratti della frontiera pakistana erano insicuri, ora lo è l’intera fascia frontaliera. Nel giro di un anno (aprile 2005) secondo mappe non pubblicate, il saliente ribelle nelle province di Uruzgan, Zabul, e Ghazni è aumentato del 20% circa sul totale (…) Concretamente dopo le azioni di disarmo e smobilitazione del luglio 2005, vi sono ancora dai 100.000 ai 180.000 irregolari in armi, dei quali 2-3000 combattenti talebani e irriducibili ed un centinaio di qa’edisti”.

Domanda: E gli altri chi sono? Le antiche milizie dei “signori della guerra e dell’oppio”? In parte sicuramente. Ma molti sono semplicemente afghani che di fronte alla distruzione dei villaggi, ai danni collaterali, all’uccisione di vecchi donne e bambini, ma soprattutto di fronte all’insipienza dell’intervento della coalizione e del governo fantoccio di Kabul, hanno semplicemente deciso che era più prudente rimanere in armi. Le corrispondenze di Gino Strada e di Vauro dal “fronte afghano” degli ospedali di guerra valgono molto più delle scempiaggini di analisti, esperti militari e giornalisti!
Certo, secondo Politi “se questa guerra viene persa, l’intera ONU e la coalizione militare impegnata nell’operazione subiranno lo stesso scacco politico patito dai sovietici nel 1988, con prevedibili effetti nelle minoranze arabe o mussulmane jihadiste o simpatizzanti”

Peccato che questo effetto l’abbiamo già ottenuto proprio con la “guerra afghana”: un’operazione di polizia che doveva individuare e catturare i vertici di Al Qa’eda ed arrestare (dead or alive) Osama bin Laden. Sono passati cinque, dico cinque anni. Osama e Zahwahiri sono ancora a piede libero – e qualcuno mi deve spiegare perché – e Enduring Freedom e Isaf – che militarmente sono la stessa cosa hanno fallito il loro obiettivo principale e sono divenute una “guerra coloniale”. E la storia insegna che le “guerre coloniali” in Afghanistan le hanno perse tutti, tranne Alessandro il Grande. Ma non mi sembra che la “coalizione” sia paragonabile alla falange macedone!

Ma continuiamo a leggere Politi: “La guerra in Iraq è invece persa. Sul piano strategico reale gli Usa avevano puntato a trasformare l’Iraq in un perno di manovra strategico nel Medio Oriente, con la possibilità di rimpiazzare le grandi basi perdute in Arabia Saudita di fronte alla pressione di Al Qa’eda e della casa regnante. A livello simbolico le forze USA oggi non riescono nemmeno a controllare l’autostrada che collega l’aeroporto di Baghdad alla Zona Internazionale, tanto è vero che gli spostamenti diplomatici avvengono solo in elicottero”

In più c’è la “Guerra Civile irachena” fra Sciiti e Sunniti, che potrebbe portare addirittura a uno “dissociazione” (è il termine che si usò in Jugoslavia) dello Stato Iracheno o a qualche forma molto radicale di federalismo. Vedi qui.
Solo nel mese di luglio ci sono stati 3.438 morti di morte violenta, secondo dati del Ministero della Sanità e della “Morgue”.
Centodieci morti al giorno. Più delle vittime complessive del conflitto israelo-palestinese. Nei primi sette mesi dell’anno i morti sono stati, sempre secondo fonti del governo iracheno, 17.776. E c’è la provincia di Bassora pronta a esplodere (vedi qui).
E c’è l’Iran che deve solo aspettare che l’Iraq o gran parte di esso finisca per gravitare nella sua area di influenza. Già è stato siglato un accordo sul petrolio fra Iran e Iraq.
“Secondo l’accordo, Baghdad spedirà a Teheran 100 mila barili di greggio al giorno. In cambio l’Iran invierà all’Iraq 2 milioni di litri di prodotti raffinati al giorno. Il trasporto del carburante avverrà in un primo momento su strada, ma le due parti non escludono la costruzione di un oleodotto che colleghi i due paesi. Si tratta di un risultato importante per l’Iraq, che e’ costretto spesso a importare derivati del petrolio a causa dei continui attacchi dei miliziani all’industria petrolifera. Un tempo estremamente tesi, i rapporti tra Baghdad e Teheran sono migliorati da quando un governo a maggioranza Sciita ha preso il potere a Baghdad.” (Repubblica online, 16 agosto 2006)

Le conseguenze mediatiche della guerra in Libano

La capacità di resistenza, per non dire la “vittoria”, degli Hezbollah contro l’esercito più forte del Medioriente, l’Idf, ha segnato probabilmente una svolta cruciale, che non riguarda solo il Libano.
Essa ha due conseguenze immediate, uno sul piano della comunicazione – che nella guerra al terrorismo è fondamentale – e un’altra sul piano della geopolitica dell’area.
Nonostante gli sforzi per attribuire agli “Hezb” l’etichetta di “terroristi”, compito a cui si è dedicata gran parte della stampa occidentale, e italiana in particolare, è sinceramente difficile convincere l’opinione pubblica che un gruppo così radicato nel Sud del Libano, rappresentato da due ministri nel governo libanese, alleato con forze come quelle del Generale Aoun, cristiano-maronita, un gruppo che gestisce ospedali, centri di assistenza e che ora manda i suoi militanti nelle aree colpite dai bombardamenti per fornire supporto alla popolazione, sia solo un gruppo di efferati “terroristi” (1).
Il che non esclude ovviamente che gli “Hezb” abbiano condotto operazioni con tecniche terroristiche.
Secondo l’israeliano Intelligence and Terrorism Information Center at the Center for Special Studies (CSS) Hezbollah sarebbe responsabile fra l’altro,

– dell’autobomba all’ambasciata americana di Beirut del 18 aprile 1983, (63 vittime)
– dell’autobomba contro le caserme dei marines e del corpo dospedizione francese in Libano il 23 ottobre dello stesso anno (241 marines e 58 paracadutisti francesi uccisi).
– dell’autobomba del 20 settembre 1984 contro un sito annesso all’ambasciata USA a Beirut Est (30 morti)
– dell’attentato alla AMIA, un centro ebraico a Buenos Aires nel luglio del 1994 (86 morti)
– dell’attentato all’ambasciata israeliana sempre a Buenos Aires nel1992.

Per dovere di cronaca: i primi tre attentati furono rivendicati dalla Jihad Islamica, un gruppo inizialmente proveniente dai “Fratelli Mussulmani” (sunniti) ma che dal 1979 manifestò simpatie per la rivoluzione khomeinista e che da tempo è considerato legato all’Iran. Sempre per dovere di cronaca. Secondo il CSS l’ex presidente argentino Carlos Menem, incassò, per ordine di Kamenei, una tangente da 10 milioni di dollari su una Banca Svizzera per depistare le indagine sull’attentato all’AMIA.
Ma di fronte al bombardamento indiscriminato di Beirut Sud molti, anche in Occidente, iniziano a pensare che fra lanciare bombe dagli aerei su pulmini carichi di profughi, su ambulanze o ricoveri di donne e bambini, e portarle con le proprie mani o peggio con il proprio corpo, non esista una differenza morale o etica rilevante. Al massimo sono diverse le tecnologie adottate.
E’ qui che incomincia a crollare la costruzione mediatica, ma anche giuridica della “Guerra al Terrorismo”.

Partiamo dalla normativa:a livello di Assemblea delle Nazioni Unite nel 1994 si definisce il terrorismo come degli: “Atti criminali intesi o calcolati per provocare uno stato di terrore nel pubblico in generale, o verso un gruppo di persone o particolari persone”.
Nel 1999 sempre l’Assemblea ONU, Risoluzione 54/164 al punto 3: “Ribadisce la propria assoluta condanna degli atti, metodi e pratiche terroristiche, in tutte le forme e manifestazioni, in quanto azioni che mirano alla distruzione dei diritti umani, delle libertà fondamentali e della democrazia, minacciano l’integrità territoriale degli Stati, destabilizzano i governi legittimamente costituiti, colpiscono il pluralismo della società civile e pregiudicano lo sviluppo economico e sociale degli Stati”
Basterebbero queste due citazioni a dimostrare che il bombardamento del Libano è stata una azione terroristica. Non solo nel metodo ma anche nel merito. Seymour M. Hersh, il giornalista americano che scoprì la strage di My Lay in Vietnam, ha scritto su The New Yorker del 21 agosto che l’attacco al Libano era stato preparato da molto tempo prima e con il pieno consenso del Governo Americano. Non solo: “Secondo un ex membro dell’intelligence israeliana, il piano iniziale, così come schematizzato da Israele, prevedeva un massiccio bombardamento in risposta alla prossima provocazione degli Hezbollah. (…) Israele riteneva che prendendo di mira obiettivi come le infrastrutture del Libano, incluse le autostrade, i depositi di carburante, e perfino le strade normali e il principale aeroporto di Beirut, ciò avrebbe persuaso la maggior parte della popolazione Cristiana e Sannita del Libano a rivoltarsi contro gli Hezbollah”.Un magistrato direbbe che la fattispecie del reato di “terrorismo”, così come descritto dalla risoluzione dell’Assemblea dell’ONU si applicherebbe perfettamente al comportamento israeliano.Nonostante gli “Hezbollah” possano essere considerati una organizzazione “terroristica”, ciò che è apparso evidente nei giorni scorsi è che la differenza fra “terrorismo” e “terrorismo di Stato” è estremamente labile. Anzi inesistente.

Pare che agli americani i quali, dopo la strage di Qana, chiedevano a Olmert di limitare i danni civili, egli abbia risposto irritato “E voi cosa avete fatto in Kossovo! Lì non subivate neanche il lancio di una katjuscia, e avete massacrato diecimila civili!”
Non c’è dubbio, la nostra politica è fatta da gentiluomini di vecchio stampo.
Gli attentati di Londra avrebbe potuto rilanciare la “visione classica” del terrorismo islamico: aerei carichi di civili che esplodono in aria. Ma ogni giorno che passa anche la stampa inglese non nasconde un certo scetticismo. Qualcuno l’ha ironicamente chiamata la “strage dei biberon” per il gran numero di biberon finiti nei cestini durante la ricerca di esplosivo liquido. Ma è proprio l’esplosivo liquido a costituire un problema. The Royal Society of Chemistry, una autorevole associazione scientifica inglese ha pubblicato sul suo bollettino Chemistry World un articolo di B.Perks e K Sanderson che solleva molti dubbi sulla possibilità di utilizzare esplosivo liquido sugli aerei. In breve, gli esplosivi liquidi più conosciuti sono la nitroglicerina e il triacetone triperoxide (TATP), che non è propriamente un esplosivo liquido, ma è un solido proveniente dalla combinazione di componenti liquide. L’idea di portare nitroglicerina su un aereo è semplicemente folle: esploderebbe durante i controlli a terra, ad esempio quando passa sotto i raggi X, se non addirittura durante il trasporto in aeroporto. Il TATP sembra sia stato usato negli attentati alle metropolitane di Londra lo scorso anno, a detta dei laboratori che hanno svolto le indagini su un campione rimasto inesploso. Ma introdurre le componenti liquide del TATP in aereo e produrlo nella “toilette” dell’aeroplano è altrettanto improbabile. Sono necessarie “basse temperature e tutta l’operazione va effettuata in una soluzione acquosa”.

Gli obiettivi geopolitici.

Sempre secondo Seymour Hersh “l’obiettivo a lungo termine dell’Amministrazione USA era di aiutare la nascita di una coalizione Arabo-Sunnita – comprese nazioni come l’Arabia Saudita, la Giordania, e L’Egitto – coalizione che si sarebbe dovuta unire nella “pressione” degli Stati Uniti e dell’Europa contro il predominio dei mullah Sciiti in Iran.
Questo, però, se Israele avesse vinto sul campo in modo incontrovertibile. Esattamente il contrario di quanto è successo.
Pare che la stessa Amministrazione Bush si sia divisa a un certo punto al suo interno, fra la posizione di Cheney, favorevole ad appoggiare a oltranza Israele, e quella di Condoleeza Rice. La Rice, dopo aver consentito, attraverso la sciagurata “Conferenza di Roma”, il proseguimento dell’offensiva israeliana, si è accorta dell’errore commesso e ha addirittura chiesto al Presidente di poter aprire un tavolo di trattativa con la Siria, cercando un ruolo di mediazione. Donald Rumsfeld buttava fumo dal naso: pur odiando gli Hezbollah si era reso conto che, se le milizie scite irachene avessero attaccato le “sue” truppe in Iraq, la situazione sarebbe volta al peggio. Rumsfeld era in alla Casa Bianca nel 1975, quando le truppe americane si ritirarono dal Vietnam. Non voleva ripetere l’esperienza.

Si potrebbe ironizzare a lungo sulle strategie americane in Medio Oriente, sui goffi tentativi di governare i “signori della guerra” in Afghanistan, sui tentativi di alleanza prima con gli Sciiti e poi con i Sunniti in Iraq, sulle “relazioni pericolose” con la famiglia saudita, e così via, fino al fiasco libanese.
E però questa immagine degli americani adolescenti malcresciuti, affetti da sindrome di Peter Pan, ignoranti di storia e di cultura è uno stereotipo un po’ troppo logorato e sostanzialmente falso. Ad esempio la trasformazione della resistenza all’occupazione USA nella Guerra Civile Irachena è stata un’operazione studiata in gran parte a tavolino . L’utilizzo dell’ala qa’edista di Zharkawi (chiunque esso sia stato) è stata probabilmente una grande operazione di intelligence. Non a caso l’amministrazione americana diede sin dall’inizio gran risalto alla presunta lettera di Zharkawi alla dirigenza di Al Q’aeda , in cui si sosteneva la guerra civile contro gli sciti, chiamati eretici “sabei”, lettera diligentemente riportata dal sito “New American Century” http://www.newamericancentury.org/middleeast-20040212.htm
E anche durante la guerra in Libano, guarda caso Ynet, agenzia israeliana, riporta le dichiarazioni dello Sceicco Safar al Hawali, antico maestro di Osama Bin Laden, il quale definisce “il Partito di Dio” (Hezbollah) come “il Partito di Satana” e dichiara di aver emesso una fatwa per vietare ai credenti di sostenere in qualsiasi modo gli Hezb.

Storicamente gli americani sono esperti di guerre etnico-religiose, fin dalle Guerre Indiane del tempo della frontiera, alla conquista delle Filippine, al Vietnam, con l’utilizzo della minoranza Hmong, alla Jugoslavia, alla guerra in Afghanistan, con il conflitto fra tagiki, ukbeki, azeri e pashtun.
L’ipotesi di una “dissociazione” dell’Iraq in una federazione di Stati (2) certo comporterebbe vantaggi e svantaggi: Uno dei problemi più complessi è la concentrazione delle risorse petrolifere dei campi di Kirkuk nell’area a prevalenza curda. Le relazioni con la Turchia diverrebbero certamente più tese.
L’ipotesi di uno stato unitario “pacificato” a prevalenza Sciita è però ancor più pericolosa per gli USA.
In Iraq i partiti di estrazione Sciita di fatto monopolizzano il governo e sono per adesso indispensabili agli americani per il contenimento della guerriglia, soprattutto di estrazione “baathista”-sunnita. In Libano gli Hezbollah sono direttamente collegati all’Iran e controllano l’intero Sud del Libano, esprimono membri del governo libanese e raccolgono il 28% dei consensi elettorali; in Palestina, area ad assoluta maggioranza Sunnita, l’Iran controlla almeno un gruppo della resistenza, la Jihad Islamica, e mira a diventare il paese di riferimento per le ali più oltranziste del movimento palestinese, dopo l’azzeramento della dirigenza di Hamas effettuato dagli israeliani. Non bisogna dimenticare infine che il gruppo dirigente siriano che fa capo a Bashir Assad è anch’esso parte della Sh’ia, anche se di una setta particolare come gli alawithi. I musulmani Sciiti nel mondo sono ormai 130 milioni, la maggioranza in Iran, il 60% in Iraq, il 30% in Libano. Ma sono presenti ormai anche in Pakistan, in Palestina e persino nella culla dell’ortodossia Sunnita ottomana: la Turchia.

Il “Terzo Fronte” appare indubbiamente il più duro. Ed è proprio lì che vogliamo inviare le nostre truppe. Viste le scarse risorse di cui dispone il nostro malconcio paese e la miseria prossima ventura che quel menagramo di Tommaso Padoa Schioppa non cessa di ricordarci ogni volta che apre bocca, invece di militari costosi quanto inutili, non sarebbe meglio mandare che so io Emergency, la Protezione Civile, un po’ di società di ingegneria e costruzione per avviare la ricostruzione di un paese di cui avremmo dovuto impedire la distruzione? Lasciamo ai Parà francesi il compito di interposizione. Ché sul Libano hanno qualche responsabilità storica maggiore delle nostre.
NOTE DI CARMILLA:

1) Si vedano gli articoli di José Steinsleger e di Lara Deeb su Rebelión.
2) Ipotesi già contemplata come quasi inevitabile in un libro scritto prima dell’invasione dell’Iraq: Sandra Mackey, The Reckoning. Iraq and the Legacy of Saddam Hussein, W.W. Norton & Company, New York-London, 2002.

(CONTINUA)

Pubblicato Agosto 18, 2006 04:25 AM


I (servizi) segreti di Forza Nuova

agosto 29, 2006

Prima della morte di Massimo Morsello, era apparsa su Indymedia la seguente segnalazione. Più sotto, un articolo ripreso da questotrentino, firmato nel giugno 2001 da Michele Zacchi [gg]

logofn.giffiore.jpgDue neofascisti italiani, Roberto Fiore [nella foto] e Massimo Morsello, condannati per appartenenza ai Nuclei armati rivoluzionari (Nar) ma da anni riparati a Londra per sfuggire alla giustizia italiana, secondo il Guardian di ieri (12 marzo c.a.) sono agenti del servizio segreto MI6, l’equivalente britannico della Cia. I due, condannati nel 1985 per associazione sovversiva alla fine del processo per l’attentato alla stazione di Bologna – costato la vita nel 1980 a 85 persone -, secondo il Guardian arrivarono in Gran Bretagna dal Libano, dove erano stati reclutati nei primi anni ’80 dall’MI6. I britannici, in quel momento di guerra civile, eserciti mercenari e incursioni di frontiera, avevano disperato bisogno di informatori nelle file dei gruppi terroristi mediorientali dove agivano estremisti europei di varie tendenze. Il Guardian, sulla base di nuove informazioni di un ex agente della Cia in Europa, scrive che in Libano fu promesso a Fiore e ai suoi seguaci il trasferimento in Gran Bretagna in cambio della collaborazione con l’Mi6.

Le richieste di estradizione da parte italiana non furono mai esaudite nè dalla “Dama di Ferro”, Margaret Thatcher, che pure aveva promesso una lotta senza quartiere al terrorismo, nè dal suo successore John Major, anche se ora la nuova Convenzione europea sull’estradizione rende tutto più facile. Con l’arrivo del laburista Tony Blair al governo l’Italia ha chiesto di nuovo la consegna, afferma il Guardian, ma non è successo nulla. Fiore e Morsello, dopo i primi periodi a Londra dove hanno vissuto con ‘squatter’ e per mantenersi hanno fatto gli autisti di minicab, dal punto di vista politico si sono legati con un gruppo di giovani intellettuali del Fronte nazionale (Nf) britannico, e hanno dato vita a Terza Posizione Internazionale (Itp), nella quale Fiore è ancora coinvolto. Fiore, secondo l’inchiesta condotta da ‘Searchlight’ (mensile dell’antifascismo militante) e ripresa in parte dal Guardian, è anche a capo di “Nazi Hammerskins”, un movimento presente in vari paesi d’Europa che egli usa per controllare l’andamento degli affari messi in piedi nel frattempo. Dall’iniziale agenzia turistica ha avviato ora una serie di attività internazionali, tra le quali scuole di lingue, agenzie di viaggi, immobiliari e collocamento.
Nel 1989 interrogazioni parlamentari dei deputati laburisti David Winnick e Greville Janner furono respinte dall’allora governo conservatore con la spiegazione che “le rivelazioni non sarebbero state nell’interesse del pubblico”, formula usata ogni volta che l’argomento in questione riguarda operazioni dei servizi segreti. Recentemente Fiore ha rivelato di avere riavuto il suo passaporto dal ministero degli Esteri britannico.

Un fior Fiore d’affari

Sembra inarrestabile la foga imprenditoriale di Roberto Fiore e Massimo Morsello. Agli inizi dello scorso anno acquistarono alcune vecchie case in Spagna per fondare una comunità politica. Le 12.000 sterline (circa 40 milioni) necessarie per Los Pedriches (questo il nome della località) venivano da un conto della Barclays Bank intestato, fra l’altro, ad istituzioni caritatevoli.

Per il momento solo uno degli edifici è stato completato e i rapporti con la municipalità (a guida socialista) sono tutt’altro che buoni. E nonostante gli arrivi di un paio di inglesi, l’esperienza non sembra destinata a decollare.

Fiore è stato in Spagna anche per celebrare l’anniversario della morte del dittatore spagnolo Francisco Franco e in quell’occasione ha parlato davanti ad una platea che, a parere degli organizzatori, comprendeva medici, avvocati e membri delle forze armate.

Ma il leader di Forza Nuova non si è limitato a seguire convegni politici. Ha fondato, col nome di “Agenzia per la gioventù europea”, una struttura simile alle sue società inglesi (Easy London e Meeting Point).

Quando i giornali inglesi hanno cominciato ad occuparsi del suo giro d’affari miliardario, lui ha reagito con lettere alla Chiesa cattolica e alla comunità italiana, nelle quali lamentava la cattiva stampa nei suoi confronti e sottolineava le sue opere di carità.

Ma l’interesse inglese nei suoi confronti non è finito. La Charity Commissioners ha congelato i conti di due istituzioni benefiche fondate da Fiore e ha annunciato ulteriori indagini. Secondo la legge inglese, quel tipo di istituzioni non devono occuparsi di politica, ma secondo un volantino distribuito dagli ambienti neofascisti a Londra, nel quartier generale di Fiore – quello che ospita le Fondazioni – si tengono incontri organizzati da Forza Nuova.

Accanto all’attività politica esiste, per Roberto Fiore, la permanente attenzione verso gli affari. Uno dei suoi progetti è quello, per esempio, di ottenere biglietti scontati dalle compagnie aeree per le migliaia di giovani che si muovono in Europa grazie alle sue imprese commerciali; per alcuni osservatori, anzi, la sua Easy London è forse la più grande organizzazione europea in quel particolare segmento economico.

Un nuovo settore è quello agricolo: piccole aziende vengono comprate e trasformate in comunità rurali nelle quali affari e ideologia devono andare a braccetto. Questo progetto è una realtà in Italia, Inghilterra, Spagna e Polonia.
Pubblicato Maggio 26, 2004 01:32 AM | TrackBack


I tre fronti – Seconda parte

agosto 29, 2006

di SbancorLibano.jpg
Se l’Europa fosse qualcosa di più di una “espressione geografica,” vincolata a una serie di parametri e regolamenti idioti, e ad alleanze quantomeno discutibili, il suo compito sarebbe stato quello di intervenire immediatamente, assicurando, ad esempio, l’inviolabilità dello spazio aereo libanese. Evitando così la distruzione del Libano, la migrazione biblica degli sfollati, oltre a un migliaio di morti. Una posizione forte, certo, ma almeno chiara.
Ma Israele, come la Turchia dal 2004 è praticamente un paese NATO (vedi qui).
Difficile pensare quindi un esito diverso da quello della Risoluzione del Consiglio di Sicurezza ONU, che di fatto ha concesso a Israele un mese di tempo per protrarre i bombardamenti indiscriminati sul Libano.

La risoluzione dell’ONU 1701 è un capolavoro di ambiguità come ha ben evidenziato Paolo Chiocchetti su Carmilla.
Praticamente l’80% dei compiti spetta all’Esercito libanese, male armato, debole e, come sanno benissimo gli israeliani, formato ormai al 75% da Sciiti. Solo gli ufficiali sono cristiani o sunniti, ma molti parteggiano per il Generale Aoun, attualmente alleato a Hezbollah. Insomma una barzelletta.
Dall’altra parte l’intera risoluzione è filo-israeliana: non parla dei blocchi navali e dei consueti sorvoli del Libano da parte dell’aviazione di Tshal, che durano da almeno vent’anni. Di buono nella 1701 c’è solo il “cessate il fuoco”.
A una prima valutazione, dunque, gli obiettivi strategici degli USA e degli Israeliani sono falliti sul piano militare, ma forse hanno recuperato qualcosa su quello diplomatico. La domanda è: dove si riaccenderà il “terzo fronte”? Di nuovo in Libano, o a Bassora oppure direttamente in Iran con una campagna di bombardamenti?

Una notizia passata inosservata, a volte, è la chiave di interpretazione dei nuovi assetti geopolitici.
In Aprile l’Agenzia Russa Itar-Tass riportava le dichiarazioni di Manuchehr Mohammadi, ministro degli esteri iraniano che dichiarava la richiesta dell’Iran di far parte del Gruppo di Shanghai, (Shanghai Cooperation Organization – SCO).
Cos’è lo SCO? Nato nel 1997 fra Russia, Cina, Kazakistan, Kyrgyzstan e Tajikistan – i cosiddetti cinque di Shanghai – a cui si aggiunse l’Uzbekistan, lo SCO si proponeva inizialmente di risolvere i problemi relativi alla frontiera russo-cinese. Ben presto però i suoi scopi si sono allargati: nel 2001 fra le sue finalità fu inserita la “lotta al terrorismo in Centro-Asia, dove vi erano state infiltrazioni qa’ediste (wahabbite), particolarmente rischiose vista l’esistenza sia negli Stati dell’ex URSS che in Cina di ampie comunità mussulmane, addirittura maggioritarie nelle ex repubbliche sovietiche del centro Asia. Comunque all’inizio i suoi obiettivi sembravano modesti.
Oggi non è più così. All’iniziale funzione di anti-terrorismo, si sono aggiunte funzioni di cooperazione militare, economica e culturale. Esso rappresenta un’area di oltre 30 milioni di kmq e una popolazione di un miliardo 455 milion idi persone. Non solo nel 2005 il Gruppo di Shanghai è stato aperto ad altri Stati come “osservatori”: Mongolia, Pakistan, India e Iran.
Di fatto all’offensiva americana in “Eurasia” – il vecchio sogno di Brezinsky – che doveva puntare sulle repubbliche sovietiche del Centro-Asia si è contrapposta un’alleanza Russo-Cinese che in pochi anni si è consolidata enormemente.
Per comprendere la sua influenza basta pensare che dispone di due membri permanenti nel Consiglio di Sicurezza dell’ONU.

Il Gruppo di Shanghai vuole entrare nella gestione della “crisi nucleare iraniana” e non ha nessuna intenzione di lasciare all’America e a Israele il monopolio della politica estera mondiale. Si è creata una nuova “faglia” che rischia di riallontanare Oriente ed Occidente. L’Iran è esattamente sul confine della faglia.
E d’altra parte l’atteggiamento Russo-Cinese nelle recenti crisi mediorientali, e soprattutto verso l’Iran sembra non solo coordinato, ma volto a trovare soluzioni antitetiche a quelle americane. I Russi hanno proposto a più riprese di svolgere loro per conto dell’Iran i processi di arricchimento dell’uranio. Inoltre chiunque abbia un minimo di conoscenza in campo militare sa che quella dell’atomica iraniana è una minaccia estremamente relativa.
Vediamo perché. Il numero delle atomiche israeliane non è evidentemente pubblico. Ma ci sono delle stime: l’Intelligence americano le valutava a fine anni ’90 fra 75 e 130. Le foto realizzate da Mordechai Vanunu, che pagò con lunghi anni di carcere la divulgazione dell’informazione, facevano ritenere che vi fosse un potenziale fra le 100 e le 200 bombe. Le stime più alte arrivano a 400. Comunque stiamo parlando di una potenza nucleare in grado di polverizzare tutte le capitali del mondo arabo. I vettori di trasporto, oltre agli aerei, sono circa 300 missili Jericho 1 e Jericho 2 , il primo con una gittata di 500 km e il secondo da 1.500 a 4.000 km, a cui si aggiungono 12 missili Popeye Turbo con gittata da 200 km per sottomarini di classe Dolphin di fabbricazione tedesca.
A questo potenziale l’Iran può opporre pochi esemplari, forse prototipi, di Shabab 3 con una gittata di 1.900 km. In grado comunque di colpire Israele. E’ vero che l’Iran sta potenziando il suo programma missilistico, ma è anche vero che l’atomica iraniana non potrà essere pronta, secondo le stime AIEA, che fra cinque-dieci anni. E’ opinione comune infine che, dopo lo smembramento dell’URSS, il “Trattato di non proliferazione nucleare” abbia perso di senso. Israele, India e Pakistan non vi aderiscono, la Corea del Nord si è ritirata dai sottoscrittori e la possibilità che anche piccoli stati si dotino di armi nucleari, è estremamente alta, purtroppo.

Da un punto di vista militare l’intera questione è priva di senso. La forza del mondo arabo-mussulmano nei confronti di Israele è costituita dall’enorme differenza demografica fra ebrei e mussulmani. E anche questa è relativa, considerando le divisioni etnico-religiose all’interno del mondo arabo-mussulmano. Sul piano tecnologico la forza è tutta dalla parte di Israele. L’atomica iraniana, se mai verrà costruita, avrà una logica di “deterrenza”, come fra USA e URSS ai tempi della guerra fredda. Gli ambienti militari israeliani temono proprio questo: essere costretti a sedersi al tavolo delle trattative. E seguono gli americani nella guerra preventiva.

Ma allora come mai la crisi iraniana scoppia proprio adesso?

Alcuni motivi “geopolitici” appaiono già da quanto detto. Riassumendo: la politica americana per un “Nuovo Medioriente” non può permettere che fra i suoi due avamposti, l’Afghanistan e l’Iraq, esista uno “stato canaglia”, un “asse del male” il quale potenzialmente ha già in mano il controllo del governo iracheno e può giocare in Afghanistan la carta della minoranza azera e dell’”esecrabile banda di Golbodin Hekmatyar (Hezb-i-Islami) che ridusse in macerie Kabul con l’indiscriminato bombardamento e il lancio dei missili quotidiani.”. Così la chiamavano le donne del RAWA, l’Associazione Rivoluzionaria delle Donne Afghane (vedi qui). Oggi Hekmatyar è gentile ospite dell’Iran.
Il Governo Americano non può soprattutto permettere che il quarto produttore mondiale di petrolio e il secondo di gas entri nel “Gruppo di Shanghai”, dove c’è la Russia, secondo produttore di greggio, e primo per il gas. La geopolitica delle fonti energetiche verrebbe rivoluzionata definitivamente.

Ma, a differenza di diversi critici della politica americana, da Chossudosky a Chomsky, solo per citare alcuni punti di riferimento, io non credo che ci troviamo nella situazione di un “imperialismo classico”, cioè del tentativo di impossessarsi di risorse strategiche attraverso la guerra. Insomma: una guerra per il petrolio. Un piccolo esempio: Gli USA prima della guerra del 2003, in pieno embargo, importavano dall’Iraq in media più di 800 milioni di barili giorno, con il sistema “Oil for Food”. Oggi dopo l’occupazione ne importano 522. Nonostante gli attacchi della “resistenza” ad alcune centrali di pompaggio – peraltro limitati – il calo dimostra che il petrolio iracheno non era un obiettivo immediato degli USA. Diverso il discorso sulle riserve, ma quelle verranno amministrate probabilmente da un governo Sciita filo-iraniano, o da un improbabile Stato Kurdo.
No, il petrolio è una variabile del “Grande Gioco” Mediorientale, influenza sicuramente i conti della Exxon e di Halliburton, grandi elettori di Bush, ma non basta da solo a spiegare la destabilizzazione dell’intero Medioriente. Fra l’altro una “Guerra per il petrolio”, condotta secondo i canoni classici dell’imperialismo, avrebbe dovuto avere come obiettivo un ribasso del prezzo del greggio: l’esatto inverso di quanto si sta verificando.

Storicamente gli americani, fin dalla prima crisi petrolifera, sono stati avvantaggiati dagli alti prezzi del petrolio. Un petrolio più caro vuol dire creare una massa di liquidità in dollari (petrodollari) che non incide sull’inflazione americana, ma che viene “riciclata” in parte sui mercati finanziari, principalmente americani, e in parte in progetti di sviluppo nei paesi produttori, (realizzati in gran parte da società americane) ovviamente purché siano “amici”, come l’Arabia Saudita e gli Emirati. Il flusso di capitali così generato viene utilizzato per pareggiare il “deficit della bilancia commerciale americana” attraverso investimenti diretti e di portafoglio. Il risultato è che i cittadini USA possono continuare a vivere al di sopra delle proprie possibilità: una generazione di Oscar Wilde, anche se meno autoironici.

La guerra come forma di regolazione dell’economia in un periodo di crisi.

L’economia americana, come è noto agli esperti – anche se non ai giornalisti economici – è in crisi dal marzo 2000, quando tutti i principali indicatori, a partire dalla produzione industriale, iniziarono a puntare verso il basso, fino allo sgonfiamento prima della “bolla della new economy” e poi dell’intera borsa americana. E’ forse non del tutto inutile ricordare alcune di quelle cifre: nel secondo trimestre del 2000 l’economia americana passò da un tasso di crescita del 5%, allo 0% della fine del 2000, andando in recessione per due trimestri nel 2001. Nonostante gli sforzi della FED, che iniziò una serie vertiginosa di ribassi dei tassi di interesse, fino a portarli a valori negativi, sotto cioè il tasso d’inflazione, la Borsa registrò il peggior crollo dai tempi di Wall Street: l’indice Standard & Poors 500 perse fra il 1999 e il 2002 589,5 punti, pari al 67% del suo valore.

La tragedia del 9/11 avvenne proprio nel mezzo della crisi. Guardando l’indice Dow Jones si nota una pesante caduta di circa 400 punti i giorni 5 e 6 settembre dopo la rottura di quota 10.000, avvenuta a fine agosto. Il 7 ed il 9 la Borsa è chiusa per il week-end. Il 10 rimane piatta, come in attesa. L’11 gli aerei si schiantano sulle Torri e Wall Street chiude per circa una settimana. Seguono altri crolli del listino fino a portare il Down Jones poco sopra quota 8.000. Poi lentamente la ripresa.

Nel frattempo era scoppiata la “Guerra al Terrorismo” che, dal punto di vista economico, volle dire un aumento impressionante del deficit pubblico. La recessione fu scongiurata, la crisi finanziaria anche e l’America ricominciò a crescere a tassi del 3,5% annuo. Molto più dell’Europa.
Tutto ciò però ha avuto un costo in termini di deficit commerciali e pubblici. Nel periodo di Clinton l’America aveva accumulato un grande deficit commerciale, ma aveva un forte “surplus” nel Bilancio Federale, pari al 2% del PIL. Nell’era del primo mandato Bush si è arrivati a un deficit fiscale superiore al 4% del PIL. Ciò vuol dire che in meno di quattro anni una cifra pari al 6% del PIL americano è stato trasferito dallo Stato all’economia. Si tratta di una cifra enorme. A cui si assomma un deficit commerciale superiore al 5% del P.I.L.
“Gli Stati Uniti – dice Joseph Stiglitz (premio Nobel per l’Economia, ex consigliere di Clinton e professore alla Columbia University) – stanno ampiamente contraendo prestiti, al ritmo di due miliardi di dollari al giorno, per pagare l’ampio deficit commerciale. Il più ricco paese del mondo vive al di sopra dei propri mezzi. Comunque, anche la più potente nazione del mondo non può sfuggire alla semplice aritmetica del debito: i soldi servono per pagare gli interessi e, eventualmente, ripagare i prestiti. Facendo così gli USA saranno più poveri.”
Negli ultimi giorni diversi economisti americani, non particolarmente anticonformisti, come Nouriel Rubini sul suo blog, e Paul Krugman, sul New York Times, hanno messo in guardia su una possibile prossima recessione dell’economia americana fra la fine del 2006 e il 2007. Questa volta sarà la “bolla immobiliare” a innescare la crisi che potrebbe estendersi al dollaro e ai mercati finanziari. Oltre a mettere letteralmente sul “marciapiede” migliaia di famiglie americane che hanno usato la crescita del prezzo delle case per “rifinanziare” i propri mutui a tassi ora sempre più alti.
A novembre ci sono le elezioni americane per il Congresso. La “Junta” Militare che governa attualmente gli Stati Uniti deve vincerle, se non vuol rimanere ingessata fino al 2008, data delle prossime presidenziali. Aspettiamoci il peggio.

Il Dio e il bambino

Come dire: il rischio che “Il Terzo Fronte” si riapra prima dell’autunno è concreto. E se il quadro geopolitico che ho provato a delineare ha una pur scarsa possibilità di essere vero, Il Terzo Fronte” non sarà uno scherzo: per la prima volta rischieranno di confrontarsi l’ormai consolidata egemonia americana e la nascente potenza euroasiatica. Nessuna delle due, né il “fondamentalismo liberista” yankee, né il “nazionalismo totalitario Russo-Cinese”, sembra poter incarnare un futuro possibile per l’umanità. Se un “altro mondo è possibile”, andrebbe cercato in fretta. Prima che, come scriveva Ezra Pound “Ognuno segua il suo Dio”. Ed Ezra Pound, benché geniale, non era propriamente uno scrittore “di sinistra”.

Per quanto mi riguarda il mio, di Dio è stato bombardato a Balbek. Un cacciabombardiere israeliano ha centrato, insieme a un bambino di dieci anni, anche una parte del Tempio di Bacco-Dioniso. Ma il mio, di Dio, c’è abituato. Da sempre muore ogni anno, e ogni anno rinasce, così come spero accada al bambino. Che forse altri non era che una epifania del Dio.
Pubblicato Agosto 20, 2006 03:14 AM